Spesso mi capita di sentire: “ Devo parlarti di un mio problema”.
Siamo convinti che i problemi siano solo nostri, come se avessimo l’esclusiva e non l’avesse nessun altro.
Spesso il vero problema è l’idea di essere soli e separati. Se ho problemi di ansia e mi isolo l’ansia crescerà o diminuirà?
Se perdo il lavoro e mi isolo avrò più o meno possibilità di riprendere a lavorare?
Se mi ammalo e credo che la malattia riguardi solo me chiudendomi agli altri, guarirò più o meno velocemente?
Oggi viviamo in un mondo che genera continua separazione e scissione di ogni forma di comunità, collaborazione e aiuto.
L’individualismo, cioè il pensare a sé come individui separati è una malattia.
Ogni problema già come lo formuliamo linguisticamente si può trasformare per capire quale sia il vero problema.
Perché noi crediamo di avere un problema ma in realtà ne abbiamo un altro che ci accomuna tutti quanti.
Aristotele definiva l’uomo come zoon politikon cioè socievole, comunitario perché la genesi dell’essere umano è il gruppo, in molte società i figli erano del gruppo non solo dei genitori biologici.
A volte i genitori potevano essere malati o inadeguati ma la comunità aveva funzione di accoglienza e supporto.
Freud diceva che l’amore è desiderio di cibo soddisfatto, l’amore è odio per i fratelli mascherato, il bambino nasce narcisista, ma oggi la scienza dimostra l’opposto perché il bambino nasce predisposto alla relazione.
Purtroppo questa conoscenza non è abbastanza diffusa, non siamo predisposti ad una cultura collaborativa di unione comprensione e condivisione bensì paura, separazione e giudizio che non segue il naturale sviluppo del nostro cervello.
Foto di
Nicole De Khors di
Burst